Cassazione Civile, sez. II, sentenza 30/01/2017 n° 2289
La sentenza enuncia un principio fondamentale in tema di rapporto d’agenzia, ossia il
diritto dell’agente al pagamento delle prestazioni accessorie effettuate a vantaggio della preponente.
Nel procedimento un agente, che aveva cessato il rapporto cessato, conveniva in giudizio
la Casa Mandante chiedendo la condanna al pagamento di provvigioni non corrisposte ,
dell’indennità di fine rapporto, del risarcimento del danno.
Il Tribunale riconosceva in parte le ragioni addotte dall’agente (escludendo però la
condanna della preponente al pagamento di compensi aggiuntivi per l’ attività di deposito
effettuata dall’agente solo per alcuni prodotti).
La Corte di Appello accoglieva parzialmente il gravame presentato, rilevando come
l’agente avesse effettivamente prestato attività accessorie rispetto a quelle previste
nell’accordo negoziale sottoscritto tra le parti ( appunto il deposito) e riconoscendo
pertanto all’agente una somma ulteriore per dette attività.
Contro tale decisione la Casa Mandante propone ricorso in Cassazione adducendo diverse
motivazioni.
In primis, la preponente lamenta una presunta erroneità della decisione di secondo grado,
che sarebbe stata frutto di una insussistente distinzione tra i prodotti destinati ai
dettaglianti e quelli destinati ai grossisti. Tale motivo è rigettato dalla Suprema Corte, che
rileva come lo stesso si risolverebbe in una inammissibile richiesta di nuova valutazione sui
dati processuali raccolti. La Suprema Corte aggiunge che la decisione della Corte d’Appello
si sarebbe fondata su altro aspetto (riconoscendo la provvigione aggiuntiva all’agente non
già sulla base di una distinzione tra i prodotti, ma sulla base di una distinzione tra i
contratti di agenzia in essere – diversificati per il dettaglio e per l’ingrosso).
Con ulteriore motivo, Casa Mandante , riguardo al riconoscimento in favore dell’agente di
somme ulteriori per le attività accessorie, contesta la decisione della Corte d’Appello sotto
molteplici profili di diritto (vizi del consenso, carenza della forma scritta, assenza del diritto
per l’agente del rimborso delle spese, presunzione di gratuità del deposito).
In sintesi la preponente sostiene che nulla possa essere riconosciuto per tale titolo
all’agente, dal momento che :
nell’accordo sottoscritto tra le parti nulla era previsto sul punto ed un’eventuale previsione
avrebbe dovuto essere provata per iscritto ai sensi dell’art 1742 c.c. ;
allo stesso modo nulla era previsto negli AEC di categoria per la prestazione di tale
attività (l’unica previsione era relativa alla riscossione dei crediti);
la legislazione codicistica in materia- art 1748 c.c.ultimo comma- esplicitamente prevede
che l’agente non abbia diritto al rimborso delle spese sostenute;
la normativa di settore-art 1767 c.c.-esplicitamente presume la gratuità del deposito.
La preponente aggiunge, infine, che l’accordo negoziale non era stato impugnato per vizi
della volontà e, conseguentemente, non era possibile ricorrere ad una integrazione da
parte del Giudice.
La Suprema Corte rigetta tale motivo evidenziando come la decisione della Corte d’Appello
sia fondata su una diversa ratio decidendi.
In particolare, la Suprema Corte riconosce come sia “evenienza comune” che l’agente sia
incaricato, nel corso del rapporto di agenzia, di svolgere attività accessorie differenti da
quelle canoniche tipizzate dalla normativa, citando ad esempio “la tenuta in deposito di
prodotti del preponente, la corretta esposizione e presentazione dei prodotti nei punti vendita,
così come ulteriori attività collegate all’evoluzione della distribuzione”.
Tali ulteriori attività possono essere qualificate come oggetto di autonomi contratti, da
considerarsi come collegati all’accordo ” principale” ma dotati di una propria autonomia.
Pertanto, qualora l’agente provveda a svolgere, oltre alle canoniche attività previste dal
contratto di agenzia, anche ulteriori attività accessorie a vantaggio del preponente, tali
attività devono essere appositamente retribuite.
In particolare la Suprema Corte, sulla base della decisione della Corte d’Appello, le
qualifica come lavoro autonomo accessorio e, mancando una determinazione negoziale del
corrispettivo, ritiene conseguentemente applicabile alle medesime la previsione di cui
all’articolo 2225 c.c.
Con la detta pronuncia la Suprema Corte, pertanto, si allinea e conferma il proprio
orientamento maggioritario superando un precedente contrario.
Con ulteriore motivo, la preponente lamenta presunti errori nella determinazione dei
compensi provvigionali da parte della Corte d’Appello, che avrebbe errato sia
nell’interpretazione delle risultanze istruttorie sia nella normativa applicabile.
Anche tale motivo è rigettato dalla Suprema Corte, che rileva come lo stesso si
risolverebbe in una inammissibile richiesta di nuova valutazione sui dati processuali
raccolti.
avv. Maria Rosaria Pace
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